o8.o9 rassegna di arte contemporanea 

14.12.2008 - 14.01.2009
Cervignano del Friuli / Scodovacca / Torviscosa 

Quinta edizione della Rassegna di Arte Contemporanea, curata dall'artista Orietta Masin e dallo storico dell'arte Fulvio Dell'Agnese, promossa da Circolo Arci n.a. di Cervignano del Friuli e dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Cervignano del Friuli. Inaugurazione il 14 dicembre alle ore 15.00 presso la sala convegni di Villa Chiozza a Scodovacca e alle ore 17.30 al Museo CID di Torviscosa.
Quest'anno la rassegna si amplia ulteriormente esibendo artisti del contemporaneo non solo della nostra Regione, ma anche del vicino Veneto, Trentino Alto Adige, Lombardia e Piemonte. 
Un percorso espositivo articolato che a Cervignano del Friuli coinvolge gli spazi non convenzionali del vivere quotidiano con opere dislocate in piazze, cortili, lungo le banchine del porto fluviale o nelle chiese, sotto i portici del Palazzo Municipale e all'interno della biblioteca.Nella suggestiva corte interna della settecentesca Villa Chiozza di Scodovacca, oggi sede dell'ERSA - Agenzia Regionale per lo sviluppo rurale - un intervento installativo, invece, si relaziona con la storia del nostro passato; mentre a Torviscosa, esempio di città di fondazione - inaugurata nel 1938 - di stampo imprenditoriale nata dalla volontà della SNIA e per opera dell’industriale Franco Marinotti, l'arte entra in una realtà museale, il Museo CID, che dopo il recupero architettonico e la nuova apertura nel 2005, intende diventare una struttura espositiva dinamica e aperta ai temi e al linguaggio della contemporaneità.
E proprio i tristi fatti legati al nostro contemporaneo hanno spinto gli organizzatori a dare uno spazio di solidarietà all'interno dell'inaugurazione di Torviscosa, ai tanti operai Caffaro e delle ditte esterne che, proprio nella storica fabbrica adiacente il Museo CID, stanno lottando per mantenere il posto di lavoro.  

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ORARIO:                  
Cervignano del Friuli
Palazzo Municipale__Zona porto fluviale _ Chiesa di San Michele_ Chiesa di San Girolamo_ Chiesa Mater Dei di Borgo Fornasir_ Biblioteca e cortile interno Centro Civico
Per opere interno Biblioteca: Lun. mer. giov. e ven. 9.30/12.00 - 15.30/19.00. mart. e sab. 9.30/12.00
Frazione di Scodovacca
Villa Chiozza
da lun. a giov. 9.oo/13.oo - 15.oo/17.oo – ven. 9.oo/13.oo – sab. e dom. 15.oo/17.oo
chiuso Natale, Santo Stefano, 1° e 6 gennaio
Torviscosa

Museo CID_
Torre panoramica
                                                                                                                   
sab. 10.oo/13.oo - 16.oo/19.oo - dom. 15.oo/20.oo
chiuso Natale, Santo Stefano, 1° e 6 gennaio

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EVENTO COLLATERALE

Azienda agricola Borgo Fornasir, Cervignano del Friuli
sabato 10 gennaio ore 18

Presentazione del libro DE ARZÉNT ZU, "Di argento scomparso", dell'artista e poeta Ivan Crico.Si tratta di un avvenimento
Le liriche presenti in questa silloge sono state scritte in tergestino, cioè nell'antico friulano parlato fino agli inizi dell'Ottocento nella città di Trieste e di cui si sono perse le ultimissime tracce - secondo la testimonianza dello studioso Pavle Merkù - agli inizi della Prima Guerra Mondiale.

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DAL CATALOGO DELLA MOSTRA

 

TRANSITI E PERMANENZE
di Fulvio Dell'Agnese

 

 

Un tasto in meno. Il nuovissimo portatile sfornato dalla Apple, che mia figlia già cerca di sottrarre alla mamma, è privo del tasto “canc”; esiste solo il “backspace”, si cancella esclusivamente all’indietro.Che le grandi menti dell’informatica avessero un’idea differente dalla mia della lettura, lo avevo capito; il pensiero di un libro digitale mi atterrisce. Ma non credevo fossimo così distanti anche nella concezione dello scrivere. Invece devo constatare come da parte loro si dia per scontato che il ripensamento – con susseguente esigenza di cancellatura – consista solo nell’eliminare subito l’errore di battitura. È come se ti costringessero a dipingere dando le pennellate in un verso solo.
È diverso, dite? Le parole e i periodi si compongono sempre da sinistra a destra? Vero fino ad un certo punto: non occorre giungere alla poesia visiva o alle parolibere futuriste per avvertire che, in certi punti della frase, si crea un effetto di risacca, che il senso ritorna su se stesso nel permanere del suono, come il margine d’ombra intorno a una figura in un rilievo a sottosquadro. E quel chiaroscuro determinante va scavato, sulla carta o nella pietra, togliendo materia con libertà e continuità di gesto.
Lo stesso spirito mi piacerebbe si riuscisse a leggere in o8.o9: in quanto insieme di interventi artistici che non sono frutto di una programmazione in ordine dato, che non vogliono proporsi in rigida consequenzialità, ma che vivono di reali riverberi e consonanze, tra loro e rispetto ai luoghi.

Transiti e permanenze. A partire da Villa Chiozza a Scodovacca, dove Elisabetta Sari interviene nello spazio del cortile retrostante l’edificio con una sottolineatura – che le pertiene per formazione, come architetto paesaggista – della dimensione di natura connotante il complesso.
Il vasto parco all’inglese, con la sua alternanza di boscaglie, radure, acquitrini, è di là dall’edificio che ospita l’Ente Regionale per lo Sviluppo Agricolo; nella corte tre enormi gelsi si stagliano sul bianco di ghiaia ed intonaci, prestandosi ad una riflessione visiva sul tempo naturale e su quello storico.
Il primo ha privato gli alberi delle loro fronde; il secondo ha sancito l’importanza specifica di queste piante nella vita economica del territorio, secondo dinamiche produttive – la coltura del baco da seta – ormai lontane, ma che proprio a Villa Chiozza, per le funzioni dell’ente che vi opera e nel ricordo delle ricerche scientifiche che vi vennero condotte, meritano di mantenere traccia tangibile.
Le foglie sovradimensionate che Elisabetta fa comparire, fuori stagione, ai piedi delle grandi piante diventano così pedine di un duplice gioco della memoria; che riscatta al rango di palcoscenico uno spazio altrimenti confinato al ruolo di neutra cerniera fra villa e edifici di servizio.


A Cervignano, contesto dell’intervento di Pablo Garelli è, invece, il sagrato della chiesa di San Michele. Un Angelo intagliato vi si innalza secondo l’esibito incastro di forme semplici, arcuate e complementari, che ripropone in linguaggio contemporaneo la sapienza costruttiva da carpentiere di certi antichi Crocifissi, che a volte potevano anche rinserrare le braccia spiegate per farsi deporre dalla croce durante i rituali della Passione. Talora addirittura il Christus patiens "parlava", grazie a un meccanismo che ne azionava la lingua, fra le labbra schiuse in sofferto respiro. Al nostro angelo acefalo non si può chiedere altrettanto, ma nella sua lineare, essenziale povertà gli si può affidare – soprattutto in clima di Avvento – il compito di difendere lo spazio che lo circonda dal distratto ingranaggio di un Natale di soli spot e luminarie intermittenti.
Altro carattere, ma il medesimo DNA, dimostra la seconda scultura dell’artista, che si inserisce a ridosso della zona del porto fluviale. Un aggregato di rimasugli del passaggio di un idraulico maldestro e di qualche meccanico distratto? No, il "Pegaso droide" di Garelli ha un dinamismo interno che ne fa qualcosa di differente da un puro assemblaggio di oggetti fuori contesto. Sembra liberare l’energia implosa di una compressione da Nouveau Réalisme, è un essere degno di fantasie d’animazione alla Chomet più che di saghe fantascientifiche; ludica ed autoironica contraddizione al prototipo per eccellenza – quello equestre – di ogni scultura urbana.

Nel giocoso parco di sculture allestite da Daniel Spoerri sulle pendici del Monte Amiata, in Toscana, si arriva d’altronde a dare consistenza di bronzo persino ad un mucchio di ciabatte. L’installazione di Cristina Lombardo e Monica Trevisan, pur realizzata per accumulo di suole, non ha invece pretese monumentali; è costruita sul vuoto, perché ognuna delle vecchie scarpe che la compongono ha senso in quanto involucro frusto e sformato di piedi che le hanno abbandonate, come animali che cambiano pelle; è una scultura fatta di tracce, di logore crisalidi di milioni di passi, simbolicamente aggregate a ricreare l’idea di un flusso d’invisibile umanità, eco di quella che realmente è trascorsa sulla sponda.
I sentieri nel bosco, topos delle favole che ascoltavamo da bambini, e le strade che abbiamo percorso da adulti convergono e si materializzano in una sorta di versione urbana – e ovviamente di più generico spessore antropologico – delle Vie dei Canti di chatwiniana memoria; cammino di pellegrinaggio senza fine che si ritorce, come l’acqua sotto il ponte, in un mulinello d’energia sorridente, appena velata di malinconia sotto un biancore diffuso in cui si appanna la concretezza del ricordo. 


Come nell’enorme tessuto di Marisa Bidese, che si dispiega sulla riva opposta con la metafisica evidenza di un’apparizione mitologica: chi sta entrando o uscendo dalle acque trascinandosi dietro questa tela di Penelope? Una solare Europa rapita o una Gorgone ctonia?
Di certo la nodosa, arcaica corsia serpeggiante segna, nel suo plasmarsi al suolo fino a lambire il fiume, il rapporto fra dimensioni dichiarate contigue, come il drappo canoviano che esce dall’ombra a sancire comunanza d’affetti fra vivi e morti – tra chi va e chi rimane – nel Monumento a una duchessa d’Austria di cui lo scultore incornicia il ritratto con la pelle d’un serpente che – eterno ritorno – si mangia la coda.
Anche in questo caso, come di là dal fiume, caterve di vecchi maglioni hanno fornito con le proprie gabbie infeltrite di corpi la materia prima per l’installazione; senza cercare nel metodo ormai abusato del riuso una propria ragion d’essere poetica, da scovare invece in quelle forme di mutamento che coinvolgono gli oggetti in quanto testimoni del quotidiano divenire dell’uomo; il più instabile di tutti, anche quando rimane immobile. 

Anche quello in cui agisce Johannes Pfeiffer è uno spazio di transito. Nel loggiato del Municipio l’intervento dell’artista reinterpreta le masse dell’architettura attraverso il loro vuoto, rendendo visibili le direttrici prospettiche che individuano e con scabro artificio fissano il passaggio del singolo, in un tempo che – così dilatato – non è più quello della storia. Un macigno e una ragnatela di funi silenziose, proiettate verso un imprevisto punto di fuga, restituiscono dignità di percezione a momenti all’apparenza marginali del luogo, ne interrompono la visione unitaria e simmetrica rivelando come la sua organica ragion d’essere si leghi proprio alla frammentazione operante da ogni esperienza individuale. L’istante in cui può essersi prodotta – senza assumere forma stabilizzata – l’occasionale presenza di ognuno di noi sotto quelle arcate viene sottratto all’impalpabilità estetica del flusso; permettendo così, come un particolare trattamento del colore in pittura, “di conferire allo spazio quel carattere mucoso e tangibile, proprio di un’atmosfera che contiene oggetti”[1].
Far riemergere la tattilità di quello spazio assume nello specifico contesto un valore simbolico: siamo nel "pronao" del tempio della burocrazia, a pochi passi da dove si sancisce la nostra identità anagrafica di cittadini. E nelle nicchie del vestibolo Pfeiffer allestisce due grandi volumi sulle cui pagine socchiuse scopriamo, come incisioni epigrafiche nello spessore di pietra di una lapide, le tracce di nomi ostinatamente legati a dei numeri: nascite e morti, date unite da un trattino, ovviamente incapaci – pur nella loro ufficialità – di dar conto di quanto vi trascorse in mezzo.
Come nel portico il vuoto viene posto in tensione per farne spazio, qui si evoca la distanza fra identità e persona, fra un nome e quel grumo d’azioni, pensieri ed affetti che, invisibile a quasi tutti gli altri nel corso della vita, dopo la morte rimane flebilmente abbarbicato a poche sillabe in un registro. Estrema illusione, “[…] a tal punto costante, a tal punto imperiosa, a tal punto esigente sembra essere questa nostra necessità di andare per il mondo a dire chi siamo, […] come se per il fatto di averci riconosciuto ci conoscessero e di noi non ci fosse nient’altro da sapere, o quel poco che ancora restasse non meritasse l’impegno di una domanda nuova”[1].


Altrettanto teso a demolire l’arroganza denotativa del testo scritto, portandone invece alla luce il possibile ruolo di fisico collante di una progettazione estetica, è l’intervento di Oreste Sabadin nella corte del Centro Civico e all’interno della Biblioteca. Pagine solide è un’installazione ambientale costruita di libri: volumi che diventano scultura, quaderni che vediamo levitare come in un mobile calderiano, ironici E-book in cui carta, inchiostro e polvere consumano la propria innocente vendetta sul cranio di un’intelligenza artificiale; ma soprattutto libri che si offrono – aperti – al nostro sguardo nella continuità sonora delle pagine da sfogliare, ricoperte di colori saturi che le impregnano con le vissute scrostature d’intonaci di una stanza profondamente amata; pagine ovunque percorse da una grafia che ormai si è lasciata alle spalle anche i pochi scrupoli sintattici e la deriva di senso del flusso di coscienza in tempo reale di Leopold Bloom.
Ho maturato il dubbio che Joyce scrivesse così – mi si perdoni l’affettuosa irriverenza – perché con intorno il caos di una famiglia, in una sola stanza, non aveva alternative; Oreste invece lo ha liberamente scelto… Di rendersi tramite, intendo, fra i suoni dei pensieri e la carta, facendo in modo che la scrittura lasci per strada – mentre si deposita – ogni scoria di significato. Le lettere si fanno pura trama, che quando può sfrutta anche le rigature della carta, lì ad attendere – pare – l’annotazione musicale.  

Tracce visive di una complessità di sentire e non veicolo cifrato di significati; questo offrono, sotto forma di parole, i libri intrisi di lettere e colore di Sabadin, non diversamente da quanto abbiamo visto accadere nei grandi registri di Pfeiffer, con le loro impronte simboliche. Cos’altro sono, infatti, quei nomi incertamente scalfiti sulle pagine? E solo più concretamente allusive alla imago corporis – ma egualmente lontane dalla superficie trafficata dell’esperienza – sono le Impronte di Leda Nassimbeni, installate all’interno della piccola chiesa di San Girolamo. Nuche, braccia, corpi che tornano a galla – o sprofondano? – con l’inquietante urgenza senza volto di un ricordo rimosso. Ombre di donne – detto nel senso di esseri umani, come se scrivessi “uomini” – che riemergono dagli immani Maelström della storia o dai piccoli anfratti di vertigine della vita di ognuno; e che lo fanno con una fisicità inconsueta nell’associazione al materiale – lastre di acciaio – ed alla tecnica, che prevede la trasformazione del metallo in una sorta di pellicola fotografica, impressionata dall’artista adagiandovi il corpo della modella e indirizzata nello sviluppo sostituendo agli acidi il calore di una fiamma ossidrica.
Il risultato assume, nell’accostamento dei vari elementi in forma di polittico, la dinamica gestuale di un Compianto da sacro monte e la stratificazione lacerata del pathos di una Combustione informale.Vicine, nella chiesa, ai simboli della fede, queste opere non si atteggiano a Crocifissioni laiche. Sono piuttosto dei sudari: al di fuori di rimandi cristologici che cadrebbero nell’ovvietà, identificano foscolianamente varchi tra dimensioni diverse, tra il lucido nitore di partenza della lastra e le ombre che su di essa, dall’oltre, vengono evocate.   

Ed è in una sorta di limbo, di reminiscenza di un passato che si sarebbe potuto realizzare, ma non seppe mai assumere le forme prefissate, che va ad affondare le sue radici l’intervento artistico ospitato a Borgo Fornasir. Le Coordinate di una morte ripercorse da Ivan Crico sono quelle della progettata sepoltura nella chiesa della Mater Dei di chi l’intero borgo aveva progettato, ma che non riuscì ad inserire uno spazio definitivo per sé all’interno della propria creatura ideale. È ora l’impronta di un’assenza a testimoniare quanto di irrisolto aleggiava fra arbusti e mattoni: non c’è più bisogno di lapidi né di fosse, perché la memoria di un visionario si può tranquillamente adagiare nella vuota matrice interrata del suo corpo, “nella conca di pioggia del commiato”[1]. Nei disegni di studio per l’installazione all’esterno della chiesetta, Crico suscita il profilo del genius loci in termini di prossimità visiva agli alberi che del suo sogno urbano e imprenditoriale sono rimasti a lungo i quasi unici testimoni.
Ripenso a una celebre sequenza in soggettiva di Dreyer e cerco di immaginare quei rami nodosi come li vedrebbe dal suo sospirato sepolcro il “creatore esiliato”; ridare una possibilità al suo sguardo di scorrere nelle trame mentali e sulle spesse brine di quell’angolo di campagna, ricreare per lui le condizioni “dove il tempo dice la parola di soglia”[1], mi pare gesto di tenerezza inconsueta.


A Torviscosa, il microcosmo sta in alto. Gian Carlo Venuto utilizza lo spazio della Torre panoramica, sospeso sulla città, nei suoi connotati di luogo isolato – quasi orbitale – ma al contempo proiettato nel paesaggio, per condurvi alle estreme conseguenze le sue ventennali sperimentazioni sulla pittura ad affresco. Decine di tondi, realizzati stendendo l’intonaco su di un supporto in lana di legno, ritessono l’estensione percepibile della parete, la ritmano in reticoli che fanno rivivere l’antica battitura dei fili, o in un enorme cerchio che può serbare memoria di soli al tramonto quanto di giri di lancetta che scandiscono il tiraggio della calce.
L’operazione è condotta sul filo del paradosso di piccole forme geometriche, che potremmo attenderci asetticamente iterate nella dilatata retinatura di un catalogo di colori – estensione murale di un luccicante campionario farmaceutico alla Hirst –, la cui regolarità risulta invece ben presto solo apparente. In ogni disco la meccanica del dipingere a buon fresco, condotta alla superficie in tutta l’evidenza del gesto e del processo di fissaggio del pigmento, viene direttamente tradotta in fatto espressivo: velature, incisioni, spolveri, inserti a latte di calce, posti sotto la lente d’ingrandimento nei singoli elementi, enfatizzano la componente estetica insita nella tecnica parietale, nelle trasformazioni della materia che l’artista è chiamato a gestire. Un’officina alchemica sospesa sulle ciminiere. 

Perché quella di Torviscosa è, in tutta la sua complessità, una realtà industriale; evocata, con vigore plastico, ma insieme con la leggerezza di marzapane di una fiaba, dalle sculture di Daniela Chinellato collocate negli spazi del CID – Museo Territoriale della Bassa Friulana.
A Torviscosa, inaugurata nel ’38 da un poema di quel Marinetti che giusto un secolo fa poneva le premesse teoriche alle ciminiere di Boccioni, le sbuffanti colonne in terracotta dipinta dell’artista di Bolzano trovano posto con la stessa naturalezza di una statua littoria lungo viale Marinotti, o di un comignolo su una delle mille navi che lì vicino sono entrate e uscite per via d’acqua dagli stabilimenti; sono Ciminiere che – a quarant’anni di distanza – con il loro gonfio pennacchio di fumo sembrano palpitare del surrealismo psichedelico di Yellow Submarine, ma la cui superficie segnata da lividi e graffiti ha l’odore caliginoso delle periferie urbane di Sironi. 

Se questi sono – anche artisticamente, dalla Fabbrica di Rio Tinto di Picasso e Braque in avanti – i totem del progresso del XX secolo, è invece sulla icona tecnologica del nuovo millennio che insiste l’intervento di Michele Viel, il quale innesta nel corpo di alcuni robot, assemblati con parti di vecchi elettrodomestici, meccanismi e suonerie in grado di essere attivati da una chiamata di cellulare. La carcassa industriale si fa carapace sferragliante di una nuova lira orfica, cassa armonica della sola voce ormai capace di acquietare coscienze e di attivare in concordia lavatrici e frullatori: quella telefonica, ovviamente mobile.
Nella calata dei VibraBots di Viel si inscena l’ironica proliferazione di quel delirio ipercomunicativo che ci sta seppellendo sotto una valanga di informazioni sempre più frammentate, rapide, insipide; ma di consolante capacità omologativa. 

Che abbia, allora, un senso insistere nell’antica e desueta usanza di contemplare cieli ed acquitrini, immersi oltretutto in un vaporoso silenzio? Col rischio di vederli trascolorare gli uni negli altri nel dilatarsi dell’istante, senza più che lo sguardo trovi l’appiglio per dare concretezza di misura al suo rapporto con questo scenario; che allora, approdato a una dimensione tutta interiore – come quella dei dipinti di Daria Cerqueni –, può anche frammentarsi in pannelli verticali come un paravento, come un altarolo portatile: di quelli che nel '400 racchiudevano in piccola superficie snodabile il segreto del transito dal quotidiano allo spirituale, condensando in pochi centimetri di legno di pioppo esigenze di celebrazione del proprio status e scandaglio del sacro, nella insondabilità costruita dalla preparazione rossastra sotto il blu di lapislazzuli. Ma i paraventi di Daria non hanno la spessa imprimitura di una tavola; l’olio si stende leggero sulla tela e l’immagine si legge – senza ritorni di senso – in una sola direzione: nella sua liquida profondità, nella compenetrazione di una struttura fatta per celare e di una pittura che affronta luce e natura con l’intenzione meditata di aggregare uno spazio paesistico.
 

 

La rassegna o8.o9 ha, secondo me, una chiusura ideale: occorre salire una scala e raggiungere il soppalco che si affaccia sul salone principale del Museo CID. Di lassù, nello spaziare dello sguardo dal grande plastico di Torviscosa allo scorcio di città vera, fuori dalle vetrate, si è indotti – un po’ come sulla Torre – ad assumere un grado di distanza dal dettaglio concreto, ad osservare secondo un modo percettivo più disponibile all’astrazione. È proprio in questo ambiente che Agostino Perrini espone una ristretta selezione di suoi dipinti degli ultimi due anni, nei quali prosegue la sua esplorazione di microcosmi esistenziali e psichici – che già si erano configurati nei termini dell’Hortus conclusus in una precedente serie di lavori – tracciando sulla tela le coordinate non propriamente cartografiche di quelle che l’autore definisce Mappae Mundi: tavolati grigi improvvisamente squarciati da una fenditura e dalla sua possibile proiezione futura; linee che paiono marcare confini di silenzio fra spazi egualmente vuoti, forse non più ampi di una stanza; vastità azzurre – pareti come colline – che s’inflettono all’improvviso in una forra blu…
Nei quadri, costruiti con estrema essenzialità di forme e di mezzi, alternando stesure di pigmento a campiture lavorate con la cenere, contemplando l’inserimento sia di elementi vegetali che di logori brandelli di tessuto, importanza nonsecondaria assume la parola: vergata in modo da ribadire i tratti di volta in volta divaganti, straziati o contemplativi del quadro, essa esprime nel titolo la rotta poetica seguita: Dove cresce la terra; Misurare lontananze; Recinto di ombre; Vuoti di confine; Mappa di presenze disperse
Le mappe di Agostino più che documento di memoria dei luoghi sembrano essere testimoni di una maniera d’attraversarli, di una filosofia del vivere: sottovoce, ma con un senso di sospensione che non coinvolge il giudizio, che non esclude l’indignazione; con lo sguardo serenamente rivolto al nostro destino – Mappa per vedermi già ombra –, ma anche ai Passaggi silenziosi di chi ci ha preceduto, a quei transiti appena percettibili ed alle loro permanenze affettive:    


                      
“Mi preme vederlo, toccarlo, respirare a lungo e lentamente / la sua vita che
                       se ne va piangendo, gli occhi che tacciono, / come un’ampollina di nuvole di
                                    cenere / la sua voce come un sospiro di luce sul mare” (5).

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1. M. Rothko, L’artista e la sua realtà, Milano, Skira, 2007, p. 116.
2. J. Saramago, Tutti i nomi, Torino, Einaudi, 1998 [1997], p. 167.
3. P. Celan, Conseguito silenzio, Torino, Einaudi, 1998.
4. Ibidem.
5. F. Loi, Aria de la memoria, Torino, Einaudi, 2005, p. 6: Me prèm vedèl, tuccàl, respirà liénda / la vita che piang via, j ögg che tâs, / come amulìn de nìula de scendra / la vûs cum’un suspir de lüs sül mar  
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