Dal progetto La distanza della Luna

Una scala per la Luna

Esposizione di arte contemporanea / Omaggio a Calvino

 

da una idea di Orietta Masin

con presentazione di Fulvio Dell’Agnese

 

Borgo Fornasir, Cervignano del Friuli (Udine)

25 giugno / 30 luglio 2010

L’esposizione fa parte di un più ampio progetto titolato La distanza della Luna, che in occasione del solstizio d’estate vuole offrire una occasione per recuperare una dimensione naturale ritrovando il contatto con le misteriose forze della Terra e del Cielo. L’evento, ideato da Orietta Masin, è promosso dal Circolo ARCI n.a. Cervignano in collaborazione con l’Azienda Borgo Fornasir. L’Azienda, situata nell’omonimo borgo a sud-est di Cervignano del Friuli, è un complesso in stile romanico totalmente in mattoni faccia a vista, fondato nel 1933 dall’Ing. Dante Fornasir come esempio di città ideale. Il borgo sarà il naturale palcoscenico per questo articolato programma che intreccia i festeggiamenti del solstizio d’estate, con l’arte e il teatro - attraverso un omaggio allo scrittore Italo Calvino nel 25°anniversario della sua scomparsa –, il cinema - con il poetico “stralunato” film di Fellini “La voce della Luna”-, e l’astronomia.

Per l’esposizione di arte contemporanea Una scala per la Luna agli artisti invitati è stato chiesto di ispirarsi alle Cosmicomiche di Italo Calvino e in particolare  al primo racconto La distanza della Luna, che - afferma Calvino – “è il più (diciamo così) surrealista, nel senso che lo spunto basato sulla fisica gravitazionale lascia via libera a una fantasia di tipo onirico”. 
Gli artisti che hanno accettato lo stravagante invito a realizzare una propria “scala per la luna” sono:
Rossana Beccari, Emanuele Bertossi, Marisa Bidese, Edi Carrer, Sonia Casari, Ivan Crico, Guerrino Dirindin, Silvia Giusti, Elena Grimaz, Cristina Lombardo, Lauren Moreira, Gianni Pasotti, Laura Pozzar, Sabina Romanin, Alessandro Ruzzier, Oreste Sabadin, Carlo Vidoni, Michele Viel.

 

In questa occasione sarà esposta anche l’opera di Orietta Masin.

Tutte le scale andranno a formare una unica grande suggestiva installazione nella corte interna del borgo.

La mostra, documentata da un particolare catalogo con testo introduttivo di Fulvio Dell’Agnese, e composto da pagine/segnalibro, ritagliabili e utilizzabili, avrà come appendice un importante momento di solidarietà. I promotori, e in particolare i titolari dell’Azienda Borgo Fornasir, hanno fortemente voluto affiancare a questo progetto espositivo un’asta pubblica di beneficenza a favore dell’Associazione “Il Focolare o.n.l.u.s.” (www.ilfocolareonlus.it). Il ricavato dalla vendita dei progetti e fotografie delle opere di “Una scala per la Luna” sarà destinato a un progetto dell’Associazione relativo alla ristrutturazione di una casa famiglia a Tapogliano.

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L'esposizione si trova in Piazzale Dante ed sempre aperta al pubblico.

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Un paio di metri verso la Luna di Fulvio Dell’Agnese

Furono le maree che a poco a poco la spinsero lontano:
le maree che lei Luna provoca nelle acque terrestri
e in cui la Terra perde lentamente energia.

I. Calvino, La distanza della Luna  

“Uccidiamo il chiaro di luna!”, tuonava Marinetti con i suoi Futuristi un secolo fa, scosso dai fremiti di infantile arroganza che gli facevano sognare un cielo imbevuto della sola luce di infinite “lune elettriche”, simbolo supremo di modernità.
La modernità…
A guardarlo oggi, fa tenerezza il gracile e sgraziato LEM – a suo tempo orgoglio dell’umana tecnologia – che condusse Armstrong e Aldrin sulla Luna nel ’69, con la sua esile scaletta da cui il piede dell’astronauta spiccò goffamente l’ultimo saltello da conquistatore planetario.
Nei miei ricordi di bambino quella scaletta, osservata ad occhi sgranati nel bianco e nero (altrettanto sgranato) del tubo catodico, è inscindibile per magia da quella che dava accesso alla casa – sospesa su un poroso mondo di gommapiuma – del cavalier Stampella, di cui sento ancora nitidamente la voce nasale dall’accento genovese; era uno degli “Animatti” di Tinin e Velia Mantegazza, i pupazzi animati che allora furoreggiavano – più vicini a Ionesco che ai cartoni animati di oggi – alla “Tivù dei ragazzi”.
La stessa che poco dopo mi avrebbe fatto provare i primi vaghi fremiti erotici di fronte alle grazie femminili inguainate in tutine di rete delle ragazze dai capelli viola di Base Luna, in una popolare serie di telefilm.
Basi culturali robuste, vedete, le mie.

Alla Luna si sono poeticamente protesi in molti; qualcuno c’è pure arrivato, magari sparato da un cannone come il Barone di Münchausen, e l’ha descritta. Lo fece nel II sec. d.C. Luciano di Samòsata, che nella Storia vera dedica al satellite e ai seleniti pagine di puro delirio visivo, da far impallidire Salvador Dalì, Burroughs e tutti i consumatori di LSD degli anni sessanta: basti dire che la sua luna  è una specie di comunità omosessuale dalle abitudini riproduttive irriferibili, in cui va di moda bere aria compressa! Dettaglio questo che avrebbe entusiasmato Marinetti; ma lui, purtroppo, la cultura classica la considerava una palla al piede…

Prima del Romanticismo, prima di Leopardi e Friedrich, la Luna è però anzitutto quella di Ariosto. Quella dove Astolfo va alla ricerca, tra i mille residui dell’esistere terreno, del senno di Orlando. Quella dove oggi potremmo sperare di rinvenire il senso etico ed estetico che germogliava spontaneo in cortile prima dei grandi smottamenti di volgarità che paiono aver invaso la nostra tecnologica, iperconnessa quotidianità.
“La luna ariostesca è un immenso giacimento di astrazioni, e pensieri, e desideri. Un mondo alla rovescia di per sé impalpabile, spirituale, che tuttavia prende forma e corpo e odore e colore”[1]; nella grande, ironica poesia dell’autore emiliano, come nelle invenzioni odierne di un gruppo di artisti che hanno la sfrontatezza di radunarsi in un borgo di campagna, piccola versione rurale di un’utopica città ideale, per dar vita a un’installazione collettiva fatta di pioli e sguardi all’insù.

Le loro scale, nell’ispirazione complessiva dello stravagante consesso, sono figlie di quelle con cui i protagonisti del racconto d’apertura delle Cosmicomiche di Italo Calvino riuscivano a balzare su di una Luna di incantata familiarità, non ancora lontana dalla Terra, sorta di enorme cetaceo incombente sospeso a pelo d’acqua.

Quale che sia il respiro della loro struttura, dalla geometria concettuale alla germinazione rampicante (di cosa? Un Arbor vitae o un novello fagiolo magico pronto a forare le nubi?), sono scale che paiono quasi simboleggiare il proiettarsi nel mondo della non immediata tangibilità di ogni atto di pensiero, di ogni riflessione culturale, che costruisce nell’impalpabilità della meditazione consapevolezza individuale e coscienza civile.
In tal senso, ancora una volta “la luna [si dimostra] in una lontananza dialogica con la terra […], in una lontananza benefica, destinale” [2]. Volgere lo sguardo alla Luna da uno dei pioli di queste scale potrebbe rivelarsi salutare per prendere le distanze da fissità di visuale ancorate alle certezze dell’abitudine, per sollevarsi dalla scontata adesione a un punto di vista dato all’intuizione di un’alternativa; magari biancheggiante nell’oscurità.
Due metri d’altezza, rispetto alla Luna, sono pochi; ma “proprio da questo punto estremo di osservazione si può constatare che la meno esplorata, in fin dei conti, è la lontananza dell’individuo, la lontananza dell’individuo da se stesso”[3].


[1] A. Prete, Trattato della lontananza, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 128.
[2] Ibidem, p. 129.
[3] Ibidem, p. 130.